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Tevez come non l’avete mai letto

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Tevez come non l’avete mai letto
Tevez come non l’avete mai letto
Tevez come non l’avete mai letto

Carlos Tevez ha già stregato il calcio italiano, non solo il popolo bianconero. Dire che sia stata una rivelazione sarebbe fargli torto, perché un campione già affermato come lui non aveva più nulla da dimostrare. Si trattava, piuttosto, di mostrare a un nuovo pubblico tutta la sua classe, la sua grinta, la sua voglia di essere un giocatore sempre decisivo.

C’è però ancora un aspetto da scoprire dell’Apache, ed è quello più intimo. Il campione lo si conosce bene, l’uomo ha ancora molto da rivelare. O meglio, aveva. Perché Carlos ha regalato al primo numero di HJ Magazine, il nuovo Hurrà Juventus, un suo inedito ritratto. Una lunga e significativa intervista rilasciata al giornalista argentino Daniel Martinez, in cui racconta sé stesso al di fuori dal campo, dalla passione per la musica, all’impegno nel sociale, dal rapporto con i social network, ai suoi sogni per il futuro. Eccone un assaggio. Il “piatto forte” lo potrete trovare servito su Hj Magazine, in tutte le edicole dal sabato 5 ottobre.

Hai un sistema di comunicazione efficace attraverso Twitter. Ti piacciono i social network? «Sono stato a lungo restio all’idea di mettermi in Facebook o Twitter (Facebook ancora non ce l’ho). Mi sono registrato su Twitter solo qualche settimana fa proprio per il tema delle magliette dei quartieri. Ho sempre voluto mantenere una certa riservatezza sulla mia vita privata, fino a quando non mi sono reso conto che uno può scegliere di avere un profilo con un livello di privacy più o meno alto. Perciò, scrivo più di temi relativi al calcio e cerco di trasmettere alla gente più questo aspetto piuttosto che il Carlitos familiare, con sua moglie e due figlie. È sempre difficile mantenere i limiti della privacy». È da molto tempo che sei impegnato nel sociale. Per esempio, nel giugno del 2011 è nata la “Fundación Carlos TeÈvez” Qual è l’obiettivo di questa fondazione? «Attraverso la fondazione cerco di aiutare i bambini del mio quartiere. È un’organizzazione molto piccola che mantengo per cercare di dare una mano alla mia gente. Abbiamo una mensa, dove serviamo colazione, pranzo e cena a tutti i ragazzi di “Fuerte Apache”. Io ho avuto la fortuna di andarmene, la fortuna di essere stato toccato da Dio e ho potuto giocare al calcio in tutto il mondo. Per questo oggi sono conosciuto e ho la possibilità di aiutare il prossimo, cosa che mi rende felice».

Adesso sei a Torino. È simile a Manchester? Per molto tempo queste due città sono state considerate centri industriali, città operaie. Noti somiglianze? «No. Direi proprio di no. Sono due città molto, molto diverse. A livello culturale, il modo di vivere italiano è molto più vicino a quello argentino: si dà grande importanza alla famiglia, si mangia tutti insieme, si sta uniti, si fa amicizia con facilità, che tu sappia o no la lingua. Qui cercano sempre di capirti. Credo che tutte queste cose rendano Torino molto diversa da Manchester».

Che idea avevi dell’Italia? «Ti posso dire dell’idea che avevo del calcio italiano. Pensavo: “Nel calcio italiano non si corre, il gioco è molto lento, è facile”. Ora posso affermare che non è affatto così! Penso che sia il tipo di calcio più difficile in cui ho giocato. Si curano moltissimo i dettagli. Si lavora tantissimo anche a livello fisico e tattico. Credo che sia l’esatto contrario di ciò che immaginavo». Come ti trovi nell’ambiente juventino? «È come una grande famiglia. Andiamo tutti molto d’accordo. Tra i compagni, con i tifosi, con la gente, ci troviamo tutti bene. Ciò fa sì che ci sia unione, che questo gruppo sia una vera squadra e che la Juventus cresca giorno dopo giorno». Hai preso la maglia con il numero dieci che in questa squadra ha sempre avuto un significato particolare e, con grande personalità, la stai trasformando nella “tua” maglia. Che cosa pensi dei primi commenti che ci furono quando si seppe che avresti indossato la maglietta con il numero 10? «Vuoi sapere la verità? Non penso a queste cose. Non ci penso al fatto che ho la maglia numero 10 della Juventus. Sarebbe come se volessi mettermi ancora più pressione. E sotto pressione si può giocare bene, ma si può anche giocare male. E credo che ci siano più possibilità di giocare male che bene in queste circostanze. E allora io gioco come quando ero nel mio quartiere. Penso che sia per questo che mi è sempre andata bene. Non posso mettermi a pensare alla storia». Avevi annunciato che avresti lasciato il calcio a 28 anni. Molta gente si domanda il perché. È così dura la vita del calciatore? È più dura di quanto la maggior parte della gente possa immaginare? «Credo che molta gente pensi che guadagniamo un sacco di soldi facendo quello che ci piace, e nient’altro. Ma non è così. Qui si tratta di essere professionisti ad altissimo livello, al top, tutti i giorni. Tutto totalmente controllato e regolato. Non si tratta solo di allenarsi. C’è l’alimentazione, le ore di sonno e perfino molto di ciò che puoi fare o no durante il tempo libero, tutto controllato affinché durante la partita tu possa rendere il cento per cento». Ora che progetti hai per questa parte della tua carriera? «Sto cercando di tornare a divertirmi. Di sorridere di nuovo su un campo di calcio. Non è che abbia perso completamente tutto questo, ma alla fine uno si stanca dopo tanti anni di essere sotto costante pressione. L’allegria si smorza, si perde un po’ l’entusiasmo dei campetti di calcio in terra che ti porti dentro, e che è stato ciò che ti ha fatto diventare importante. Ora cerco di rivivere questa sensazione ineguagliabile, che ti permette di godere ancora una volta del calcio».

Che relazione hai con la musica? «La musica è per me una vera passione. Influisce nell’animo. Ci sono momenti in cui ti può dare allegria ma, in altri, una grande malinconia. Ho fatto alcune cose con “Piola Vago”, il gruppo di mio fratello, una maniera per passare più tempo con i miei amici». Hai anche scritto canzoni. Ti è servito come valvola di sfogo dalla routine quotidiana, per fare qualcosa di diverso e uscire dal mondo del calcio? «Sì, certo, è una valvola di sfogo, ma si tratta anche, come ti dicevo, di stare più con i miei amici, tutte persone con cui, per ragioni professionali (allenamenti, ritiri, ecc...), non riesco a trascorrere molto tempo. La passione che condividiamo per la musica mi ha permesso di stare con loro di più».

Come è nata l’idea di disegnare vestiti? «Nel disegno degli abiti della mia linea TVZ sono sempre stato aiutato da un amico che lo fa di mestiere. Mi è sempre piaciuto il settore dell’abbigliamento. Lui disegna alcuni dettagli o accessori e io gli dico dove metterli, dove mi piace di più. Per esempio, collocare un logo sulla manica o sulla schiena. Io gli do sempre il via libera e il tocco finale».

E la Formula1? Com’è stata questa esperienza a Monza? «Unica. Pensa che da ragazzino sognavo di avere una Ferrari e vedevo sempre le corse in televisione, immaginandomi come poteva essere questo mondo. E ritrovarmi nel box, invitato dalla Ferrari, vedere da vicino le macchine, i motori e tutto il resto, è stato qualcosa di straordinario».

E il golf? Come ci sei arrivato e cosa ti piace in questo sport? «Nel golf ritrovo me stesso. Impari giorno dopo giorno a conoscere te stesso. Per esempio, se sbagli un tiro, fai un colpo errato, e perdi le staffe e getti via la mazza o la spezzi, ti tolgono la tessera score. Devi imparare a gestire questi momenti, non puoi avere atteggiamenti sbagliati mentre stai giocando con altre persone. Allora cominci ad amministrare questi tempi che solo il golf ti dà. Siamo noi gli avversari di noi stessi di fronte alle difficoltà del campo. Ciò aiuta a conoscersi e, mano a mano che uno si conosce, cresce. È l’aspetto più bello del golf».

Che sogno vorresti realizzare nell’immediato futuro? «Il mio sogno è adesso. È oggi. È stare nella Juve, vivere questo presente stupendo. Non posso chiedere di più. Lo vivo giorno dopo giorno. Desidero ciò che ho, stare nella Juve, sentirmi bene, vivere il momento che sto vivendo. Per questo bisogna continuare a lavorare, per andare avanti così». Oggi senti di avere un livello di maturità diverso da quando sei giunto in Europa? «Sì, è differente. Sono arrivato a 29 anni e se non fossi cresciuto con tutte le botte che mi hanno dato, credo che ora sarei un mentecatto. Vivendo ti rendi conto di molte cose. E se uno è intelligente, deve vedere dove sbaglia e dove no. Deve vedere che cosa cambiare e cosa tenere. È questo l’importante. Questo significa crescere come uomo».

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